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Le fonti di ispirazione

Formulare alcune ipotesi sulle fonti della pittura di Danilo Aroldi è un’impresa ardua: si potrebbero citare Modigliani, Spadini, Soutine, Bacon e Vallorz, il quale non a caso fu idealmente allievo di Courbet e di Soutine, oltre che di Bacon e di Freud. Tutti nomi spendibili come modelli , anche se raramente nel suo lavoro traspaiono riprese pedisseque ed epigoniche di quelle singole personalità, prevalendo invece una sintesi originale dei loro apporti. 

Lo stile sofisticato di Modigliani è indubbiamente il modello diretto dei primi ritratti, tanto maschili che femminili. Uno stile, quello di Modigliani, che fin dagli inizi si era nutrito della pittura e della scultura toscane - i senesi Duccio e Simone Martini, ma anche Tino di Camaino e le sculture lignee policrome -, quindi si era arricchito grazie allo studio dell’arte egizia, dei feticci africani e di Cézanne. E a Modigliani riconducono, oltre alla passione per l’arte egizia e quella africana, certe rigidità linearistiche del primo Aroldi, le eleganti cadenze dei gesti, i lunghi colli e i volti ovali, con il naso aguzzo e gli occhi orientali.

Danilo Aroldi amò anche la pittura di un altro toscano, Armando Spadini, morto quarantaduenne l’anno in cui egli veniva alla luce. Spadini filtrava la conoscenza degli impressionisti - Renoir e Degas soprattutto, ma anche Manet -, pur restando attaccato al mondo emotivo di Correggio, alle brillanti cromie della pittura veneta e alla “maniera oscura” dei grandi spagnoli. Inoltre, accomunarono i loro repertori i volti assorti in una grazia malinconica e la frequente presenza di indumenti dai colli candidi e ampi e di larghi cappelli, simboliche aureole abbaglianti. Più lontana, forse, l’eco delle “bagnanti” e dei “nudi” dell’artista fiorentino.

Ma è a un amico di Modigliani, l’ombroso pittore Chaim Soutine, approdato a Parigi nel 1913 da Minsk in Lituania e stanziatosi a “La Ruche”, che Aroldi dovette presto guardare con curiosità. 

Se la fase iniziale di ricerca di Aroldi era stata segnata dal maestro livornese, con la sua classicità e la sua inarrivabile capacità di piegare la linea in volti di una tristezza pacata, in seguito egli si volse al tripudio cromatico e alla deformazione coi quali Soutine aveva espresso il suo dramma sentimentale. Tuttavia la pittura di Aroldi non fu mai violenta e fluttuante come quella dell’artista franco-lituano, disposto a sacrificare tutto al colore - una sinfonia di bianchi, verdi e rossi -, anzi mantenne una costruzione solida anche nei ritratti, e solidissima nei paesaggi.

Testo tratto dal catalogo "Danilo Aroldi. Dipinti e disegni" a cura di Sara Fontana©

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